IN      COLLOQUIO CON IL SACRO
 
         Nota in margine alla esposizione      collettiva “I colori e le forme del sacro” 
     
     
     
    Il      percorso espositivo della collettiva “I colori e le forme del      sacro”, ideato ed allestito con sobrietà ed eleganza da Corrado      Brancato nella Galleria d’arte contemporanea “Roma” di Ortigia,      accoglie le opere di un gruppo di artisti che hanno testimoniato      il loro rapporto con la dimensione del “sacro” attraverso i      linguaggi, le tecniche, i colori, le forme e i simboli propri      della loro esperienza artistica e della loro formazione.
    Le      opere presenti in mostra sono legate da un fine comune che è      quello di dare “riconoscibilità” ed evidenza al “sacro”      attraverso l’espressione artistica,  nella ricerca di una intima      sacralità intrinseca al gesto creativo: ricerca  che si realizza      sia nel recupero di alcuni modelli ed “exempla” della      tradizione cristiana, restituita nella “teatralità” figurale,      nella evocazione di vicende, momenti, personaggi e simboli della      grande “narrazione” vetero-testamentaria e neo-testamentaria;      sia in una riflessione più intima e personale, sciolta da ogni      suggestione religiosa e culturale, ed aperta ad accogliere la      dimensione del “sacer” in tutta la sua tremenda portata,      nel suo mistero e nel suo “scandalos”.
    In      effetti, l’idea fondativa della mostra risiede nella riflessione      compiuta da Mircea Eliade su quell’«ispessimento ontologico»       che caratterizza le società “post-secolari” come la nostra:      ovvero il  fatto che il sacro, nell’arte contemporanea, è      divenuto spesso irriconoscibile, camuffandosi in forme,      propositi e significati che sono, apparentemente, ‘profani’ o      che si sciolgono in un indistinto, vacuo  e confuso panismo      esoterico e soteriologico; esso non si riconosce più      immediatamente e facilmente, perché non è più espresso      attraverso il linguaggio religioso convenzionale. Se queste sono      le premesse teoriche, le opere presenti in mostra ingrediscono      verso una più ampia comprensione dei limiti, dei significati e      delle “potenzialità”, in senso spinoziano, che la parola ‘sacro’      ancora conserva ai nostri giorni nell’ambito dell’esperienza      estetica ed artistica.
    Ogni      artista ha realizzato la propria opera consapevole che essa, a      prescindere dai riferimenti culturali e religiosi, dai modelli      di riferimento e dalle qualità stilistiche e compositive che la      caratterizzano, definisce già, con la sua mera “presenza”, uno      spazio di riguardo, inviolabile, “sacro”, nell’accezione che      rinvia direttamente all’etimologia della parola: circoscritto,      ristretto, separato. La distanza che ogni opera “delimita” –      quand’anche non abbia a che vedere con una dimensione      trascendente, o comunque ‘superiore’ – può essere sia meramente      spaziale e fisica, sia temporale, sia culturale. In ogni caso,      tuttavia, tale distanza permane invariabilmente a segnare una      straordinarietà, un’eccezionalità: l’”aura”, ovvero una      dimensione emergente, umbratile, pervasiva,  non ordinaria né      quotidiana, sottratta alla morsa del tempo cosale e mondano,      precipitata e assorta nello “spectaculum”, vale a dire      nella contemplazione  e nella esperienza percettiva di  “qui      spectat”, colui che guarda e intuisce attraverso lo sguardo.     
    Tale      dimensione non è, contrariamente alle apparenze, avulsa dalla      vita; anzi, alla sua immanenza è quasi impossibile resistere,      sia essa fondata sull’incanto e sulla fascinazione, sia sul      timore e sull’inquieto avvertimento del mistero e dell’ignoto.      Limite e “soglia”, confine e passaggio, lo spazio sacro si      costituisce sempre come rapporto – ora esclusivo e privato, ora      collettivo e condiviso – tra mondi diversi; e come invito, per      chi guardi, a lasciarsi trasportare, ad affidarsi all’opera e a      sperimentare, così, una sorta di “straniamento” contemplativo o      di empatica immedesimazione.
    In      tal senso, l’approccio al “sacro” che questa esposizione rivela      è anche un “colloquio”. 
         Infatti, ciascun artista ha voluto significare – anzi, ribadire      – nel proprio lavoro, che  l’essere dell’uomo è radicato      essenzialmente nel linguaggio, cioè nella sua capacità di      aprirsi all’Altro, nell’attitudine a poter dare  e  ricevere      incondizionatamente,  nella disposizione ad accogliere      l’Alterità e ad esserne “invaso”, penetrato, fecondato. Ciò si      dà, nel modo più intimo e assoluto, entro la dimensione del      “colloquio”, in quel silenzioso scambio che avviene attraverso      le parole. Il parlare, il linguaggio, rendono possibile      l’incontro. E l’arte propizia e sperimenta, nel tempo umano che      ci è dato vivere, la forma più  assoluta e perfetta di      “colloquio”. In questo suo carattere precipuo di apertura alla      dimensione dell’Alterità, nel suo incamminarsi dentro l’oscurità      del bosco e smarrirsi in essa, sino all’avvertimento e alla      comprensione della luce della “radura”,  l’arte sperimenta il      sacro, e ne diviene “ermenuta” e custode.     
         Pluricità e diversità di      linguaggi, di tecniche compositive, di modulazioni cromatiche e      di declinazioni iconiche caratterizzano la mostra, in cui      spiccano, accanto ad alcune riconoscibili “voci” del parterre      artistico siracusano che si sono cimentate col tema, anche      talenti inediti emergenti. 
         Pregevole la qualità degli esiti artistici, sia dal punto di      vista della “rivisitazione” dei “topoi” e dei temi afferenti      alla cultura religiosa, sia dal punto di vista formale e      stilistico.
    Al      di là dei valori formali ed estetici, la mostra “Colori e      forme del sacro” ha voluto rappresentare, per tutti noi, uno      spazio di interrogazione e di indagine che scompagina posizioni      semplicistiche e, spesso, opportunistiche distinzioni tra fede e      scienza, tra credenti e non credenti: spazio fecondo ed aurorale      di domanda, di fervida attesa, di incontro e di colloquio.
    Alla      deriva inarrestabile del “genocidio” culturale dell’Occidente,      europeo ed italiano in particolare, è compito e missione della “communitas”     degli artisti proclamare la verità e il mistero della      bellezza, la sua “sacralità, nell’età del disincanto.
    E      questa mostra, realizzata con amorevole cura in una  galleria      d’arte ormai storica nella piccola isola di Ortigia, non è      venuta meno a tale compito, a questa missione.
     
          Salvo Sequenzia